Alfonso Signorini e il coming out pubblico: “Provincialismo, avete mai visto un etero ammettere di essere etero?”

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Nel difendere quanto detto da Gabriel Garko nel corso dell’ultima intervista sul settimanale Chi, da oggi in edicola (“Per molto tempo ho dipinto la mia vita con colori che non ho mai gradito. E la violenza più grande è stata quella di averlo fatto consapevolmente. Il mio era diventato un vero e proprio lavoro. Oggo non lo voglio più fare. Sarà un’utopia, ma sogno un mondo dove non ci sia bisogno di raccontare quello che succede nella camera da letto. Dobbiamo superare le barriere, le etichette, i cliché e tutte queste maledette definizioni, lasciando a tutti la libertà di esprimersi come e quando vorranno. Non riesco più a tollerare chi punta il dito, chi giudica, chi vuole dare un nome a tutto e a tutti. E non voglio più sentire parlare di normalità“), Alfonso Signorini è così tornato a sbandierare una di quelle frasi che al sottoscritto fanno venire i peli ritti. Perché nel 2020 dobbiamo ancora star qui a spiegare l’importanza di un coming out, pubblico o privato che sia, e soprattutto l’evidente  differenza con chi è etero, e in quanto tale ‘normale’ agli occhi di quella società fondata sul monolite dell’eterosessualità.  E’ straordinario, poi, come uomini di spettacolo dalle età più differenti (Mengoni, Mahmood, ora Signorini) continuino a dipingere un’Italia più aperta, cambiata a tal punto da non dover rivendicare il proprio orientamento sessuale. Quella presunta, condivisa e tanto chiacchierata ‘fluidità’ che a conti fatti, visto il bollettino omofobo ormai quasi quotidiano a cui ci siamo tristemente abituati, parrebbe proprio non esistere. Tranne che agli occhi di costoro.

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