Insy Lohan, dal blog alla libreria con Alla fine di questo libro la mia vita si autodistruggerà

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Dal blog alle librerie.
il passo è stato breve per Alessandro Michetti, ovvero INSY LOHAN per tutti i BLOGGARI gay della rete!
Crudele (anche con se stesso) e un po’ frustrato perché si è già fatto tutti i maschi di Roma, Insy Loan racconta per la prima ovlta su carta la sua odissea omosessuale che parte da una città di provincia per passare attraverso un padre poliziotto che lo convince a fare il servizio militare in polizia, per poi approdare a Roma, andandosi a schiantare contro il mondo dei locali, delle abitudini e dei vizi del mondo omosessuale. Come se non bastasse, trova rifugio in una specie di comune gay composta da attivisti politici e travestiti che danno amore a pagamento. Riuscirà anche a innamorarsi, vivendo una romanticissima storia d’amore con luna di miele a Barcellona e che gli darà il coraggio di fare il coming out con la madre. Il tono è ovviamente quello semiserio e autoironico delle pagine del suo blog, da cui dispensa tutto il beneficio della sua saggezza quanto a moda e comportamenti.
Sarà un successo anche in libreria?
Per saperlo dovrete COMPRARLO, leggerlo ed in caso stroncarlo o consigliarlo… nel frattempo (aspettando il MIO di libro!) ecco alcuni simpatici STRALCI…

Ho letto in una rivista che i bambini nati con il cordone ombelicale attorcigliato intorno al collo sviluppano in età adulta una propensione al suicidio. Sempre nello stesso articolo veniva riportata un’altra teoria, partorita, immagino, dallo stesso genio della psicologia prenatale: i neonati espulsi con parto cesareo sono più arrendevoli nei confronti della vita visto che non hanno affrontato la dura prova dell’uscita naturale dal grembo materno.
Dunque io dovrei avere la stessa aspettativa di vita di un kamikaze di Al Qaeda, visto che sono nato con un parto cesareo per sventare la possibilità che morissi asfissiato. Infatti osservando le radiografie dell’epoca, è evidente il mio disperato tentativo di tornare subito al Creatore, soffocandomi con quella specie di cappio, piuttosto che passare per quella fessura chiamata vagina.
Lo voglio chiarire subito: io non ho mai sfiorato la patatina di una donna neppure con un dito. Figuriamoci passarci attraverso.

Il primo anno di Sociologia mi metto in testa di frequentare tutti i corsi: sono affascinato da insegnamenti come Antropologia Culturale, Sociolinguistica, Semiotica o Psicologia Sociale e non ne voglio perdere neppure uno. Riesco addirittura a essere in due aule diverse nello stesso tempo (esperimento che prima di me è riuscito solo al famoso sant’Antonio da Padova con il suo celebre numero dell’ubiquità).
C’è solo un piccolo particolare che però non mi fa godere a pieno la mia scelta didattica: il fatto che il 99 per cento degli studenti siano donne. Questo nel manifesto degli studi mica lo avevano detto, disonesti. Altrimenti, a costo di impiegarci quindici anni, mi sarei iscritto a Ingegneria dove le donne sono talmente poche che la pupazzetta con la gonna inchiodata sulla porta del bagno delle femmine è emigrata alla facoltà di Pedagogia, con la speranza di trovare lavoro almeno lì.
Insomma, per una cosa del genere uno potrebbe anche trascinare il rettorato in tribunale con l’accusa di frode o terrorismo. Ma come: io vengo dalla provincia, puro come un giglio, sperando finalmente all’università di trovare dei gay come me con cui confrontarmi (in senso biblico) e invece? Mi ritrovo donne ovunque: a lezione, nelle toilette, in segreteria, tra i libri della biblioteca.

Le vedo arrivare a frotte: sciatte, senza trucco, il mollettone con i fiori di plastica tra i capelli e infagottate nei loro maglioni infeltriti tempestati di quei pallini che fa la lana di cattiva qualità. Si piazzano sui banchi a registrare le lezioni sui nastri, prendendo contemporaneamente appunti come le stenografe dei tribunali. Mi sono sempre chiesto: ma a che serve, se stai già registrando la lezione? Cos’è, la sindrome della secchiona? Hai paura che la Madonna ti punisca per aver avuto un pensiero impuro passando davanti ai senegalesi che vendono rane di legno sul viale dell’Università e che per questo ti si smagnetizzi il nastro?
Molte di loro sono figlie della provincia più dolorosa e di confine. Quella provincia fatta di scatoloni spediti dai genitori nelle stive delle corriere interregionali colmi di pasta, conserve di pomodoro, soppressate e peperoni sott’olio che loro, una volta al mese, vanno a recuperare alla stazione dei pullman di piazzale Tiburtino.
A me, che invece sono scappato dal paese caricando di esasperate aspettative la Grande Città, suscitano un nobile senso di disprezzo. Sono a Roma proprio per togliermi di dosso l’odore di quel mondo piccolo piccolo. E gli scatoloni non mi raggiungeranno, nemmeno a
bordo di un pullman. Io corro più veloce.

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